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Tendenze Nuove > Numero 3/2011 (maggio-giugno)

La cronicità è una vittoria della medicina

Copertina La cronicità è una vittoria della medicina (maggio-giugno)

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Il titolo di questo editoriale potrebbe prevedere alla fine un punto interrogativo. Però è stato omesso per predisporre un atteggiamento realistico di fronte ad un dato che è il frutto del progresso; non è oggi il tempo per discutere se la cronicità sia o meno una vittoria della medicina, ma di affermare che questa vittoria ha bisogno di condizioni concrete perché possa essere tale. Nella società postmoderna l'interdipendenza di fattori diversi rende impossibile dare definizioni a prescindere dal contesto. E questo è un caso tipico.

La cronicità è conseguenza diretta della vittoria della medicina sulla morte, del fatto che diverse malattie che fino a qualche anno fa portavano rapidamente alla fine oggi permettono una sopravvivenza per molti anni (si pensi, tra le altre condizioni patologiche, ai tumori, alle demenze, allo scompenso cardiaco, alla BPCO). Questo fatto non può non essere valutato positivamente in termini assoluti, perché la vita ha sempre un valore soggettivo ed oggettivo (quanti nostri concittadini si lamenterebbero di una vita che dura 120 anni, anche se con qualche acciacco? Non è forse una delle speranze di molti?). In questa sede però è pertinente discutere se vi sono le condizioni generali per affrontare la nuova sfida ai sistemi collettivi di protezione delle persone fragili, perché è condizione necessaria alla valutazione positiva da parte del singolo cittadino dell'evoluzione delle singole malattie.

Gli interrogativi oggi al centro del dibattito sono molti; è quasi banale riassumerli, anche se si incrociano con alcune delle problematiche più recenti conseguenti ai cambiamenti strutturali dei sistemi di cura avvenuti negli ultimi anni che li rendono particolarmente difficili da interpretare.

Di seguito sono schematicamente elencate alcune delle domande più frequenti: i nuovi bisogni di salute saranno gestibili da parte dei sistemi sanitari così come sono impostati oggi? Quale livello di intensità e di continuità di cura verrà assicurato alle persone colpite da malattie croniche che durano a lungo nel tempo? Arriveremo presto ad un sistema a due corsie, con i poveri gestiti in programmi di low costi e gli altri gestiti dalle assicurazioni? Dove saranno presi in carico gli ammalati cronici, tra ospedali che riducono i posti letto e sono dediti ad interventi di alta tecnologia, strutture intermedie ancora prive di un chiaro profilo, e assistenza domiciliare che deve fare i conti con la crisi della famiglia come struttura portante della rete? Avremo un numero sufficiente di medici e di infermieri per rispondere alla domanda crescente di cura? La tendenza a ridurre le competenze attorno a queste malattie porterà ad una riduzione della qualità delle cure? Dove saranno formati gli operatori per le malattie croniche, quando oggi mancano modelli di riferimento per curarle e gestirle sui quali preparare gli attori del nuovo scenario? Chi controllerà e come la capacità dei sistemi organizzati di rispondere in maniera adeguata ai bisogni delle persone ammalate, il cui peso politico è oggettivamente molto debole?

È impossibile rispondere analiticamente alle singole domande, anche se si deve premettere - in linea con la politica editoriale seguita ormai da anni da «Tendenze» - che la società contemporanea negli ultimi anni ha affrontato grandi sfide ed è sempre riuscita a sopravvivere, fornendo risposte adeguate al bisogno. Perché oggi di fronte alla cronicizzazione delle malattie dovrebbe essere incapace di adattamenti, per quanto difficili? Chiunque volesse prevedere il futuro con un minimo di ragionevolezza deve fare i conti con l'evoluzione culturale e tecnologica da una parte e con l'evoluzione e i movimenti delle popolazioni dall'altra. Sono due presupposti in fortissimo movimento, che potrebbero portare a conseguenze inaspettate, ma concretamente volte in senso positivo.

Quali sono le linee di un'evoluzione che permetterebbe di guardare con ottimismo al prossimo futuro? Da una parte il progresso scientifico, che seppure meno velocemente rispetto ai decenni passati (quelli della medicina dell'acuzie!) continua a fornire indicazioni sulle quali costruire un futuro decente. Il punto centrale è costruire intorno all'individuo malato le condizioni perché possa conservare al più a lungo la propria autonomia e capacità di vita, nonostante una malattia (o - più spesso - diverse malattie contemporaneamente) che tendono a limitarne la libertà e a renderlo dipendente dai servizi sanitari e assistenziali. La cronicità può essere modulata dalla plasticità strutturale dell'organismo. Il danno, qualsiasi sia la sua origine, non è reversibile, ma possono attivarsi meccanismi di riparazione e di compenso. La naturale resilienza crea equilibri clinico-funzionali sempre in movimento sui quali agisce ogni progetto di cura della cronicità, purché costruito dopo adeguate sperimentazioni e valutazioni (in questi anni abbiamo assistito a troppi sprechi provocati da interventi superficiali e senza fondamento). Lungo questa direzione, la fisiopatologia di molte malattie ha messo in luce punti di attacco che potranno permettere una seria prevenzione, prima della comparsa di sintomi di lunga durata. È una strada complicata, che ha componenti genetiche, ambientali e di terapia, ma che porterà certamente a notevoli progressi, con la diminuzione delle malattie che potenzialmente si trasformano in manifestazioni croniche. Ad esempio, se si riuscirà a prevedere una demenza prima della comparsa dei sintomi vi sarà la possibilità di interventi mirati che allontanano nel tempo la perdita della non autosufficienza dovuta al deficit cognitivo. Negli ultimi decenni si è data molta attenzione alla genetica delle malattie, costruendo modelli che ben poco hanno dato in termini di conoscenze pratiche; ora è il tempo dell'epigenetica, cioè la scienza in grado di analizzare le tendenze future e quindi anche i bisogni delle popolazioni rispetto alla rigidità del dato biologico di partenza.

L'itinerario degli interventi clinici prevede anche la definizione della prognosi, cioè la capacità di definire un progetto di cura e di attenervisi, misurando i risultati raggiunti. Si tratta di un approccio originale rispetto ad una cultura dell'immodificabilità delle cronicità, che però apre nuove prospettive per le cure e per l'organizzazione dei servizi, nel senso di una loro minor fruizione e quindi minori difficoltà organizzative e conseguenti costi.

Anche sul piano terapeutico si aprono nuove strade, mirate ad ottenere piccoli vantaggi che però hanno rilevanti conseguenze sulla qualità della vita degli ammalati e delle loro famiglie, ma anche sul peso sociale delle malattie. Ovviamente tra i progressi che possiamo attenderci vi è la riorganizzazione dei servizi secondo linee innovative che oggi non conosciamo: dalla formazione dei caregiver che permette il mantenimento a casa degli ammalati per un tempo più lungo, alla definizione di strutture di supporto per tempi limitati, fino ad una reale continuità delle cure, che eviti tempi morti, ripetizione di atti costosi, scarsa attenzione per l'ammalato ed il suo ambiente. È chiaro che in questo ambito vi è un riflesso reciproco tra sofferenza individuale e «sofferenza» delle organizzazioni; non esiste la possibilità di disgiungere le due condizioni.

Come facilmente comprensibile da questi appunti, si assisterà certamente nelle diverse aree del sapere medico a progressi che avranno ricadute inattese; si pensi all'impostazione degli studi di efficacia degli interventi (farmacologici, ma anche legati ai servizi), non più basati solo sulla logica degli studi randomizzati e controllati, ma su quella degli studi «pragmatici», fondati sull'analisi del mondo reale con tutte le variabili che lo costituiscono. Taluni ritengono sia impossibile trarre conclusioni da questi approcci di studio; altri invece stimano siano oggi l'unica modalità per comprendere l'evoluzione complessiva del fenomeno cronicità, che a tutti i livelli, anche clinici, è la risultante di diverse componenti, che non sempre sono inquadrabili in uno schema prefissato e che quindi possono essere analizzati sono «leggendo» il mondo reale, che non coincide con quello asettico e precostituito degli studi controllati.

Da quanto sopra indicato, seppure velocemente, si può capire come la medicina nel suo insieme si sia posta l'obiettivo di rispondere al suo stesso «successo», creando le condizioni per le quali la cronicizzazione non diventi causa di sofferenza inutile per il paziente, di difficoltà pratiche e psicologiche per la sua famiglia, di crisi organizzative per i sistemi sanitari, di costi alti che rischiano di divenire insostenibili per l'insieme della collettività. Nei prossimi anni vedremo se l'impegno di studio e ricerca in questo campo porterà - come ci auguriamo - a rilevanti progressi. Già oggi però si intuiscono segnali interessanti, che vanno interpretati ed aiutati nella loro evoluzione, anche attraverso una maggiore sensibilità della società nel suo insieme, che si esprime con maggiore attenzione e finanziamenti adeguati.

Ma come reagisce invece la componente burocratico-programmatoria a queste problematiche? L'Italia - uno dei paesi più vecchi del mondo e con un'alta prevalenza di malattie croniche - dedica un adeguato interesse a queste problematiche da parte del mondo della politica e dell'amministrazione? Anche lo stimolo indotto dalla crisi economica potrebbe far ipotizzare una maggiore attenzione. Invece, purtroppo, i segnali non vi sono sempre positivi; manca una visione strategica che inquadri la cura delle cronicità in uno schema sostenibile sul piano clinico, organizzativo ed economico. Nello scenario giocano negativamente componenti come una certa resistenza ideologica a riconoscere le cronicità come ambiti di intervento clinico ed anche un certo scetticismo sulle possibilità di cura (cosa ben diversa dalla guarigione!). Ma è soprattutto il disinteresse strategico da parte dei decisori che pesa su queste problematiche. In particolare manca una continuità di attenzione da parte di chi avrebbe rilevanti responsabilità. Recentemente la FIASO, associazione di manager del SSN, ha denunciato l'altissimo turnover dei direttori generali delle aziende sanitarie avvenuta nei mesi scorsi; qualsiasi siano le cause di questo fatto, come è possibile dare stabilità progettuale ed organizzativa ad un sistema che richiederebbe grande attenzione per affrontare le problematiche poste dalle malattie croniche, quando gli attori primari degli interventi non godono della necessaria stabilità per affrontare in modo sereno ed approfondito queste problematiche?

In conclusione è possibile affermare che la cronicizzazione di molte malattie è stata un successo della medicina e che oggi vi sono i presupposti perché il progresso possa continuare. Molto dipenderà dalle decisioni di una politica seria, che ritenga di affrontare queste problematiche in modo strutturale, incominciando dal permettere un lavoro sereno da parte di chi ha la responsabilità diretta di rispondere ad un bisogno sempre più rilevante.

Marco Trabucchi

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