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Fondazione Smith Kline

 

Tendenze Nuove > Numero 6/2011 (novembre-dicembre)

La continuità delle cure: una battaglia che deve essere vinta

Copertina La continuità delle cure: una battaglia che deve essere vinta (novembre-dicembre)

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Qualcuno potrebbe ritenere stucchevole la continua discussione sulla continuità delle cure; se ne parla da anni, con un'accentuazione negli ultimi mesi. Tutti gli incontri più qualificati affrontano questo tema con apparente impegno, ma ancora dobbiamo vedere i segni di un reale cambiamento, seppure iniziale.

Ritorniamo anche noi su questi temi e, secondo lo stile di «Tendenze», proviamo ad osservare lo scenario con l'occhio di chi crede nelle possibilità di fare e senza il pessimismo paralizzante di chi ritiene che la crisi imponga una chiusura ulteriore, per difendere quello che c'è da attacchi di potenziali aggressori (è importantissimo diffondere anche nei luoghi di cura una visione che non indulga al pessimismo, per permettere agli operatori di lavorare serenamente, senza timori per il posto di lavoro o per la disponibilità di strumentazione adeguata).

Una prima considerazione riguarda il livello al quale devono avvenire le decisioni, cioè quale è lo spazio per l'autonomia regionale nel costruire modelli adeguati al fine di garantire una vera continuità delle cure. Questa considerazione ha due specificità: l'una riguarda il ruolo del Ministero della Salute che dovrebbe mettere a disposizione finanziamenti adeguati per sperimentazioni serie. Se invece si limita a prediche sul dover essere, perde di prestigio e le regioni realizzano che non hanno nessun supporto per intraprendere strade che in molti casi potrebbero essere difficili, costose e non esenti da conflitti con alcune categorie professionali. Un'altra considerazione riguarda le regioni meridionali, sottoposte a piani di rientro o in gravi difficoltà economiche; saranno in grado di operare su due livelli, quello immediato sui bilanci e quello delle riforme che consentano di mantenere il servizio sanitario in equilibrio per i prossimi anni? Il dualismo controllo del disavanzo-sviluppo è lo stesso che ci assilla a livello nazionale; se non adeguatamente supportate potrebbe essere difficile per molte regioni pensare oggi all'innovazione nei servizi, perpetuando così una condizione di crisi.

Una seconda considerazione riguarda la logica generale con la quale si affronta la tematica; il continuare a costruire le prospettive future considerando solo quello che attualmente abbiamo a disposizione è la ripetizione del famoso esempio dell'ubriaco che cerca la moneta perduta di notte solo nel cono di luce del lampione. Anche se riconosciamo che vi sono limiti politicamente pesanti, è necessario che il dibattito (e le eventuali sperimentazioni) possano prevedere strade completamente nuove. Se continua a riproporsi una specie di censura preventiva sulle innovazioni possibili, vi è il rischio di procedere su strade molto strette, nelle quali la ricerca di soluzioni reali è poco più che formale.

Le malattie croniche sono l'ambito clinico che maggiormente richiede un'attenzione alla continuità delle cure. Il malato è, infatti, spesso reso fragile dalla patologia che lo affligge da lungo tempo e quindi richiede un'assistenza senza frammentazioni (defragmenting care, come scrivono gli autori anglosassoni), in grado di «riconciliare» (un altro termine di derivazione americana) tra di loro le varie tappe dell'intervento. Ma come può realizzarsi in Italia un reale cambiamento? Per definizione le persone affette da malattie croniche sono deboli sul piano della difesa degli interessi (anche le associazioni di malati e di famigliari sono spesso così pesantemente coinvolte nell'assistenza che non hanno tempo per dedicarsi a compiti di rappresentanza). Per questo motivo è necessario che la difesa si fondi su atti che partono dall'interno del sistema e dai suoi operatori. Ma anche a questo proposito non è facile identificare chi può difendere precisi interessi quando gli interventi sono affidati a medici e operatori che agiscono in campi diversi. Spesso la cronicità stempera anche le specificità professionali e il cronico non ha «l'esperto in cronicità» che difende allo stesso tempo il paziente e la sua propria specificità professionale. Sarebbe importante a questo proposito infondere negli operatori l'orgoglio del proprio lavoro, in modo che sulla base di un io collettivo rinforzato si ergano a paladini dei pazienti e dei loro bisogni. È banale ripetere a questo proposito che la formazione dovrebbe svolgere un ruolo primario nel campo; ma ciò sarebbe possibile solo se vi fossero «specialisti della cronicità» in grado di formare gli operatori e di seguirli nell'impegno professionale. La vera continuità della cura avrà gambe solide solo quando sarà messa in atto da operatori che pur agendo in ambiti diversi fondano il proprio agire su una vera omogeneità di conoscenze teoriche e di tecniche operative.

La continuità delle cure comporta la costruzione di modelli complessi. Vi sono molti semplificatori nel campo, destinati a fallire, troppo spesso dopo aver investito tempo e denaro della collettività. Complessità significa prima di tutto riconoscere che il sistema non va governato con regole rigide, come se il tutto rispondesse a ordini militareschi. Si devono considerare tante variabili, umane, organizzative, culturali, economiche; il tutto è gestibile solo attraverso una vicinanza fattiva con i luoghi delle cure, evitando di trasmettere ordini che valgono per ogni tipo di ambiente, di storia, di condizione di partenza dei servizi stessi. Sostanzialmente deve essere chiaro che un'organizzazione efficiente di continuità delle cure può funzionare solo collegando le idee di fondo sui diritti del cittadino ammalato con una serie di modelli possibili, frutto di sperimentazioni adeguate, i quali a loro volta si fondano sulla capacità di un continuo adeguamento alla variabilità delle realtà locali. La garanzia sulla correttezza delle modalità operative viene offerta dalla capacità di immettere tutti gli attori all'interno di una rete accettata e non imposta, che fruisce delle moderne ICT per non disperdere dati nei due sensi, bottom up e top down.

Il titolo di questo editoriale fa riferimento a «una battaglia che deve essere vinta»; i tempi della vittoria non sono prossimi, gli strumenti operativi ancora per molti versi oscuri, le volontà politiche per superare gli interessi corporativi non del tutto chiare. Però la pressione del bisogno e la sofferenza indotta da comportamenti di abbandono non ammettono dubbi sulla necessità di arrivare ad un risultato.

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